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Prologo

Quella notte era la prima di luna nuova.

Le basse abitazioni dai tetti arrotondati di paglia sembravano funghi giganteschi che spuntavano nell’oscurità. Di certo le pareti di fango solidificato con cui erano costruite ne conferivano l’odore. Le mura esterne della città di pietra grigio scuro, corteccia e robuste canne erano difficili da distinguere a quell’ora, sembravano un’unica barriera nera continua che inghiottiva l’orizzonte e sbiadiva nel cielo blu notte illuminato dalle solitarie stelle. Il solo modo per notare la differenza di materiale di quella barriera artificiale, era tramite le tenui fiaccole accese a ogni cinque metri, legate ai pali piantati nei pressi delle mura per fornire visibilità agli abitanti e tenere lontane le bestie feroci, oppure tramite i bracieri accesi sugli obelischi di pietra disseminati qui e là lungo le strade, scolpiti a forma di bake felini, dalle sinuose braccia tese verso l’alto, le teste fiere e altere che osservavano il cielo con i loro occhi dorati che scintillavano della luce solare e delle stelle notturne, i cui nudi corpi atletici e vigorosi si stagliavano come forzuti ed eleganti alberi di una foresta di pietra, illuminati da rune e strisce verdi luminescenti, magistralmente disegnate ai lati delle guance, lungo i fianchi lisci e muscolosi, sulle braccia e sulle gambe glabre che racchiudevano tra loro graziose intimità femminili e prestanti membri maschili. Sui palmi delle mani aperte erano stati messi mucchietti di erba secca su cui scoppiettavano delle vivide fiamme e diffondevano un gradevole aroma di fumo nebbioso che ascendeva al cielo come fossero nuvole mancate, misto a erbe e foglie il cui sentore richiamava la vita della foresta.

Quelli erano i posti da evitare nella maniera più assoluta.

Dopo ciò che era accaduto negli ultimi giorni, era già un miracolo che non lo avessero impalato al solo vederlo. Probabilmente non lo avevano fatto semplicemente per la paura che nutrivano nei suoi confronti. Tuttavia se quella sera l’avessero avvistato, non ci sarebbe stato alcun timore che li avrebbe trattenuti dal giustiziarlo.

In realtà non era colpevole di alcunché, ma di certo non l’avrebbero mai creduto.

Trasportò il cadavere sulle spalle e si accovacciò dietro la parete di una capanna, sperando che il famigerato olfatto dei bake non lo scovasse. Si sporse dal lato destro della parete, rimanendo chinato. Era una cosa estremamente difficile da fare, soprattutto con un peso morto sulle spalle. La sezione era abbastanza illuminata da una torcia poco distante da permettere una discreta visione.

Per fortuna non c’era nessuno.

Tirò un profondo respiro per motivarsi. Poi mormorò con la voce più bassa possibile:

Il lungo passo

tra i tetri sentieri

verso la quiete

La sua ombra si allungò fino a raggiungere la capanna successiva, come un lungo filo sospeso nel vuoto che collegava i due edifici. Dall’ombra si levò un malsano miasma, che se fosse stato non inodore, avrebbe potuto avvelenare chiunque, strangolando dolcemente le narici. Sentì le sue caviglie cedere e i piedi piegarsi all’indietro, il corpo era più pesante e con tutto quel peso che aveva addosso sarebbe sicuramente caduto dopo pochi passi.

La reazione era sempre così dura quando usava una magia che non era del suo elemento.

Ma d’altronde non avrebbe potuto fare altrimenti.

Camminò quanto più veloce poté su quel ponte oscuro. I suoi passi non emisero il minimo rumore e parte del suo corpo si confuse con l’oscurità. Non poté fare a meno di voltarsi a destra e a manca guardingo nel caso qualcuno improvvisamente avesse imboccato la via dove si stava maldestramente infiltrando.

Per fortuna non stava passando nessuno.

Giunse all’altra capanna e cadde in avanti, oppresso dal peso del suo stesso corpo e il cadavere gli sfuggì di mano. Il ponte d’ombra svanì a poco a poco e lui rimase disteso a massaggiarsi le caviglie. Scosse i piedi per far ripartire la circolazione e poi sollevò nuovamente il cadavere e se lo mise sulle spalle. Si avvicinò alla sporgenza opposta della capanna e quando si assicurò che la via fosse libera, ripeté il processo. Anche la volta successiva andò nella medesima maniera e lo stesso avvenne per la volta successiva ancora.

Giunto al limitare della città, nei pressi del palazzo reale, vide uno sparuto numero di bake che sorvegliavano l’area. Si sporse oltre la parete sinistra della capanna dietro cui era nascosto. Vide l’imponente e solenne palazzo reale. La cupola semicircolare di pietre era divisa in quattro parti da una cornice dorata disposta a croce, ciascuna sezione aveva un colore differente: rosso, blu, giallo e verde. Essa discendeva in un mastodontico edificio a forma di parallelepipedo di pietra grigia scura, l’ingresso era costituito da tre porte sormontate da archi a tutto sesto di pietra dorata, sostenute da colonne di pietra grigia cilindriche e lisce, divise in quattro sezioni orizzontali. Vi era un ristretto cortile interno delimitato da un recinto di pietra, all’interno del quale vi erano piante dalle foglie larghe e cortecce cilindriche e grassocce. L’ingresso era posto in cima a una base piramidale dove vi era una ripida scalinata di pietra, alla cui cima erano poste due statue che sorreggevano le fiaccole, così come ve n’erano altre due alla base. Al loro fianco erano stazionate altrettante guardie bake, che indossavano delle gonne di pelle animale, ciascuna di colore diverso: rosso, blu, verde e giallo. Indossavano cuoio sfrangiato sui polsi e sulle caviglie, gli uomini erano a petto nudo, mentre le due donne avevano solo delle pelli ricucite per coprire il seno, alcuni di loro indossavano degli orecchini di piume con ganci d’oro, inoltre avevano applicato delle pitture da guerra sul viso, sul petto e sulle spalle che li rendevano più minacciosi. Imbracciavano degli scudi ovali bianchi, con delle linee centrali dritte che dividevano in due sezioni la protezione e delle truci decorazioni ovali nere a tre quarti dell’altezza, che ricordavano gli occhi di alcuni predatori spaventosi, lungo la cornice esterna degli scudi vi erano delle piume che penzolavano. Erano armati con lance corte, dalle seghettate punte di pietra rozzamente intagliate, con delle piume colorate legate al collo con dei gancetti d’oro, sull’asta scintillavano delle lucenti rune verdi impresse in verticale che formavano la scritta Che il ruggito di Omora riecheggi per il mondo, che l’eco dei bake non sia mai dimenticata.

L’uomo rimase alcuni minuti in osservazione.

Le guardie rimanevano immobili, in attesa di qualunque rumore destasse la loro attenzione e di qualsiasi movimento sospetto.

Era la situazione peggiore.

Poggiò per terra il cadavere. Una delle guardie scosse l’orecchio triangolare, come per scacciare una mosca.

Si bloccò sul colpo.

Doveva fare attenzione, altrimenti sarebbe stato scoperto.

Tirò un altro profondo respiro. Non avrebbe voluto, ma non c’era altra scelta. Ispirò così profondamente da allargare a dismisura il petto e trattenendo il respiro, sussurrò:

Violenza crudele del veemente respiro.

Il forzato scambio interrotto

nel momento della sopravvivenza.

Soffiò a pieni polmoni. Dalla bocca fuoriuscì del fumo nerastro malsano simile a quelli che si propagano dagli incendi, o dalle esplosioni delle bolle di lava che si formano a causa delle loro vertiginose temperature intrinseche, per poi scoppiare violentemente con schizzi che si ergono al cielo.

Il fumo si disperse nell’aria e si diffuse. Per fortuna quella notte era senza luce. Continuò a soffiare fino a rendere il volto paonazzo. Cadde in ginocchio e continuò a soffiare, il flusso d’aria nera continuò a scorrere. Sentì i suoi polmoni gonfiarsi e le costole fargli male. Cadde carponi e tossì. Il cuore batteva all’impazzata, il petto gli si gonfiò talmente tanto al punto da esplodere. Gli occhi sembravano schizzargli fuori dalle orbite, della bava gli colò dalla bocca. Cercò di trattenersi in tutti i modi, non avrebbe voluto fare così tanto rumore. Si mise a sedere e si tenne il petto. Gli girava la testa e rimase imbambolato per chissà quanto tempo.

Cercò di sporgersi per osservare oltre. Le guardie allertate dall’odore si rivolsero verso la nube, annusarono quel lezzo proveniente dai suoi polmoni e subito si sentirono prima intontiti, poi cominciarono a ciondolare sul posto, finché uno dopo l’altro caddero svenuti, quelli sulla cima delle scale fecero cadere le loro armi giù lungo la scalinata, facendo tintinnare rumorosamente le aste di metallo sulla pietra.

Avevano respirato l’anidride carbonica dei suoi polmoni e si erano intossicati.

L’uomo cominciò a riprendere le sue funzioni e a respirare regolarmente.

C’era mancato poco.

Prese il cadavere e lo sollevò sulle spalle. Corse al lato del palazzo di pietra, aggirandolo e giunto al limite, si sporse dal retro del palazzo. Per fortuna non c’era nessuno. Proseguì al lato successivo, camminando rasente al muro e percepì le forze venirgli meno. Si sporse e vide un’altra guardia fare il giro di pattuglia. Indietreggiò e rimase nascosto, sperando vivamente di non essere scoperto. Appoggiò nuovamente il cadavere al muro e rimase in allerta. La guardia si stava dirigendo verso di lui. Strinse la mano a pugno e cominciò a mormorare:

Intrinseca la potenza

terrestre, si palesò ai suoi occhi,

la tremenda efficienza

rese Mitla sgomenta...

Tuttavia la guardia sgranò gli occhi e si voltò verso l’ingresso del palazzo, allertata dalla visione dei suoi compagni svenuti.

Oh no... ma il braccio destro si era indurito in maniera dolorosa, sembrava che le fibre muscolari si fossero atrofizzate e non riusciva a distendere più le dita che si contrassero fino a chiudersi a pugno. Il bicipite si gonfiò in maniera innaturale e le vene fuoriuscirono verso l’esterno e sentì del tremore come se fosse eccessivamente affaticato.

Emise una smorfia di dolore, ma d’altronde non poteva andare altrimenti, considerato che non aveva superato la linea di demarcazione. Guardò il cadavere e poi la guardia.

Decise di agire. 

Uscì fuori dal suo nascondiglio e disse agitato alla guardia «Mindni newi nya?» e corse verso di lui. Il bake fu alquanto sorpreso dall’improvviso arrivo dell’ospite e sollevò la lancia «Nya...?» sussultò «Gahone le! Izihini newi nya?» domandò accigliato e minaccioso, scrutandolo dubbioso.

L’uomo fece un tenue sorriso e sussurrò «Perdonami, ma non posso dirtelo...»

L’omoriano indicò verso il palazzo «Anite neberchi?» ma prima che arrivasse una risposta, l’uomo tirò un pugno forte come una roccia alla tempia sinistra. L’omoriano cadde svenuto per il violento urto, con una ferita sanguinante alla testa che si sparse per terra.

L’uomo prese la lancia e spense la torcia, strisciandola sul terreno. «Questo non avrei dovuto farlo...» sospirò preoccupato. Trascinò il corpo svenuto e tornò di corsa verso il retro del palazzo, dove lo nascose. Riprese il cadavere e proseguì il suo cammino.

Giunse infine alla sua meta.

Davanti alla capanna vi erano stanziate due bake donna di guardia. Avevano entrambe una lancia e una di loro aveva una torcia, l’altra uno scudo. La capanna aveva una sola finestra che affacciava al centro del villaggio ed era chiusa da alcune sbarre d’ossa. La visione era una sorta di tortura psicologica, dove i prigionieri rinchiusi avrebbero anelato e rimpianto la libertà perduta, nel vedere gli altri membri della comunità vivere le loro vite allegramente. L’uomo fece un sorriso amaro. «Ho solo un tiro, se lo sbaglio... dovrò inventarmi qualcos’altro...»

Lastricato di neve l’arma divenne di ghiaccio

Lastricato di neve il terreno non crebbe e non morì,

Lastricato di ghiaccio l’aria non soffiava più

Il tempo si fermò tra le gelide grinfie del freddo che non perdona.

Sollevò la lancia e la strinse affondando le sue unghie all’interno. Il rivestimento di pietra e metallo che la componeva fu scorticato a poco a poco, come un felino che sradica la corteccia di un arbusto per affilare i propri artigli. Al posto del suo involucro, si fece spazio una lunga lancia fatta interamente di ghiaccio. Il braccio s’irrigidì e l’arma sembrò attaccarsi alla sua mano. Tirò il fiato per ignorare il dolore. Prese la mira. Scagliò la lancia puntando allo spazio poco più avanti all’ingresso della capanna. L’arma atterrò e si disciolse nel terreno dividendosi in otto parti. Dal punto d’impatto essa si disciolse, emanando un’onda di freddo glaciale che inesorabilmente si espanse verso l’esterno. Quanto più della lancia veniva dissolto, tanto più l’onda di ghiaccio avanzava. Era come un’onda oceanica che raggelava tutto ciò che inghiottiva. Le due bake non ebbero modo né di comprendere, né di reagire a quell’inesorabile e fredda avanzata. Ben presto furono inghiottite dall’onda gelida e le loro gambe furono incollate al terreno ghiacciato. Le due bake gettarono per terra le loro armi e realizzarono con orrore sempre più crescente il loro triste destino. Il loro corpo fu lentamente divorato dal gelo e s’immobilizzò, il fuoco della torcia si spense, così come la scintilla di vita nei loro occhi, prima di divenire statue di ghiaccio.

L’uomo si avvicinò con il cadavere sulle spalle. Passò tra le due statue e pose una mano sulla spalla di quella a sinistra «Perdonatemi...» ed entrò nella capanna.

Lo spazio interno era estremamente limitato. Vi era solo una piccola stuoia di vimini, con sopra un panno di stoffa per sedersi, un buco scavato al centro, attorno al quale vi era una gabbia di ossa, dov’era rinchiusa una donna, talmente giovane da sembrare quasi una bambina. Aveva la carnagione molto scura, con dei lunghi capelli ricci neri, su cui vi erano due piume lucenti verdi ai lati delle tempie usate come fermagli, aveva un viso a forma di cuore, degli occhi ampi e tondi neri, così intensi e pieni di vita che non sembravano neanche umani, un naso piccolo e proporzionato, che sporgeva tra le grosse guance tonde e paffute, con delle labbra sottili e lievemente rotonde alle estremità, che culminavano in un mento dolcemente arrotondato. Il suo corpo era minuto e quasi piatto e si vedevano solo le estremità delle pitture verdi lucenti sul petto e sulle gambe. Indossava una lunga tunica bianca, con un collare dorato, dalle lunghe maniche con gli spessi bordi dorati, decorati in modo da ricordare delle piume. In vita portava una cintura di corda arancione su cui normalmente aveva legati i suoi effetti personali, ma che le erano stati tutti confiscati. La tunica scendeva in una lunga gonna vaporosa che era estremamente sporca. Aveva i piccoli piedi scalzi con dello smalto verde acqua sulle unghie.

«Ah! Vedo che Ebo ti ha dato un bell’alloggio...» scherzò lui.

La donna esclamò contenta «Zio Gahone! Sei tu! Quando ho visto l’aria gelida venire qui, ho avuto paura!» esclamò con tono innocente.

L’uomo lasciò il cadavere per terra e scosse la testa interdetto «Ma dico io! Non potevi stare ferma per due minuti? Devi sempre fare di testa tua!»

La donna strinse le mani in preghiera «Zio, guarda che io non ho fatto proprio niente! È stato Ebo a uccidere tutti gli abitanti del villaggio, non io! Lui mi odia e...»

Ma l’uomo la interruppe «La pianti di fare la bambina? Guarda che è per causa tua se siamo nei guai!» scosse la testa «Prima tuo fratello, poi Sirafi e Ryodal e ora tu! Non mi date neanche il tempo per respirare! Figuriamoci per dormire! Devo sempre coprire i guai che combinate!» e cominciò a rovistare tra la tunica e le bisacce nascoste attaccate alla cintura. La donna mise il broncio e si sedette, incrociando le braccia «È stato Ebo, ti ho detto! Quello è un maledetto bugiardo! Ha ammazzato lui tutti quelli al villaggio e poi ha detto che sono stata io! Lui e quegli schifosi degli amici suoi, ma non appena li rivedo, giuro che li faccio volare per aria!»

L’uomo ribatté distratto «Guarda che non mi riferivo a quello che è successo nel villaggio...» continuò a frugare tra le sue cose «Ma dove diamine è andato a finire? Ah! Eccolo qua!» tirò fuori da una delle bisacce un medaglione di bronzo, con una lunga catena e la testa di felino rivolta a destra. La donna esclamò contenta «Il medaglione di Hagos! Che bello, me lo hai riportato!» e tese le mani pronta per prenderlo.

«Ferma lì!» l’ammonì lui «Guarda che non l’ho riportato per fartelo indossare. Questo ci servirà per fuggire!»

«Fuggire?» esclamò incredula «Ma io non voglio andare via. Cioè voglio uscire di qui... ma questa è la mia nuova casa e i bake e gli umani che vivono qui sono i miei nuovi amici...»

«Tadewi...» richiamò l’attenzione l’uomo «Omora è diventata pericolosa per te. Ebo ti ha imprigionata e ha creato tutta questa messa in scena perché si vuole sbarazzare di te. Lui ha convinto tutti che fossi tu ad aver ucciso gli abitanti di Ramsar e lo sai che gli abitanti di Omora sono vendicativi...»

«No!» esclamò rabbiosamente, negando la realtà dei fatti «Io non vado via da qui! Te l’ho detto e lo ripeto! Io sono una dei primordiali, zio Gahone! Ho promesso che li avrei protetti! Abbiamo stipulato l’Antico Patto, hai dimenticato zio? Anche mamma ha acconsentito, anche se non era d’accordo.»

«Tadewi ascolta, qui non si tratta di uno scherzo...» cominciò lui. Tuttavia Tadewi persistette nella sua tesi «Noi dobbiamo proteggere i bake, gli umani e i segnati di questo mondo. Dobbiamo impedire che le guerre prendano il sopravvento e sconquassino il mondo come è successo finora! Non possiamo lasciare che questo mondo venga distrutto! Abbiamo giurato di creare il nostro nuovo mondo dove tutti gli esseri possano vivere felici, donne, uomini, umani, bake, segnati e persino i mostri e anche noi!» abbassò il capo.

L’uomo rimase a fissarla. Tadewi proseguì «Ho fatto una promessa a Hagos. Lui mi ha affidato i suoi figli e io ho promesso di guidarli. Non posso infrangere quella promessa!»

«Lo so... ma...» cercò di ribattere l’uomo, ma lei riprese «Hanno combattuto con noi, hanno sofferto con noi, ci hanno accettato, nonostante sapessero cosa siamo. Come possiamo lasciarli soli, dopo tutto ciò che c’è stato? Come potremmo abbandonarli dopo la promessa che ho fatto al loro capostipite? Ho promesso a Hagos che avrei protetto i suoi figli. E anche ad Adowa, sua figlia, le ho promesso che avrei protetto Omora e avrei guidato la sua gente...»

L’uomo la guardò con un misto di ammirazione e commiserazione.

«Ebo... Ebo non è cattivo... non mi farebbe mai del male...»

«Tadewi...» le diede una tenera carezza sulla guancia «Hai ragione, Ebo non è cattivo. Ma loro, questa gente, gli umani, i bake, i segnati... non sono come noi. Abbiamo sbagliato Tadewi. Non dovevamo venire qui...»

Alla donna tremò il labbro «Io non volevo che finisse così...»

«Nessuno lo voleva» rispose lui «Ma i bake che vivono qui, non sono gli stessi che hanno combattuto con noi, non sono coloro che hanno costruito il nostro nuovo mondo, la nostra Nesia. Loro non hanno vissuto le nostre stesse difficoltà, loro sono stati graziati, loro non hanno subito le nostre stesse sofferenze.»

I due si guardarono negli occhi «Tadewi, loro hanno dimenticato.»

La donna scosse la testa «No... impossibile... Non può essere così...»

«Mi dispiace Tadewi. Noi siamo diversi. Loro non sono come noi... Loro hanno dimenticato...»

Tadewi fissò nel vuoto, smarrita, come se tutto quello che avessero fatto non avesse il minimo senso. «Omora ay resami, zio. Omora non dimentica...» rispose disperata.

L’uomo vedendola avvilita, le rivolse un dolce sorriso, le accarezzò nuovamente il viso «Mi dispiace, Tadewi.»

Le venne quasi da piangere. La delusione era stata troppo grande. Scosse la testa «Non posso abbandonarli, zio. Ho fatto una richiesta a mamma. Lei di sicuro acconsentirà e dovrà esaudirmela.»

L’uomo sospirò e il suo volto mutò in un’avvilita espressione triste «Anche io ho espresso una richiesta, ricordi?»

Il viso di Tadewi si contorse dalla rabbia «Vorrei sapere come hai potuto desiderare una cosa così orribile!»

Lui fece spallucce «Se riusciamo a fuggire e portare a termine il nostro compito, forse non si avvererà.»

Tadewi scosse la testa «Se io vado via, torneranno a farsi la guerra tra loro, torneranno a uccidersi, torneranno le discordie. Loro avranno anche dimenticato, ma io non ho scordato i sacrifici che abbiamo dovuto fare per costruire Omora, il sangue che è stato versato, il male che ci siamo fatti, le promesse infrante, quelle mantenute, la gioia del vedere questo mondo in pace, la vittoria su mamma. Come potrei voltare le spalle a tutto questo?»

L’uomo sospirò amaramente «Sai cosa ti faranno se tu non andrai via?»

Tadewi esitò e anche se era consapevole della risposta, decise di non dirla. «Ti uccideranno, faranno scempio del tuo corpo e ti getteranno nell’Erdrulu.»

Per la prima volta l’ansia s’impadronì di lei «N-Non possono farlo...»

«Certo che sì, è la legge. La stessa legge che tu e Hagos avete stipulato, la stessa che tu hai aiutato a far rispettare.»

«Ma io non posso morire!» protestò lei in un disperato tentativo di apparire risoluta «Se mi uccidono con un’arma normale... solo il mio corpo... il mio ricettacolo morirebbe, ma io...»

«Se useranno Umoya, per te sarà la fine e non credere che Ebo non lo sappia» la interruppe l’uomo. La donna strinse i pugni e le tremò il labbro. «Naar... Naar cosa dice? Lui che ne pensa?»

«Non ho detto niente a Naar» rispose lui secco «Hai idea di come potrebbe reagire se venisse a sapere che ti tengono prigioniera? Non ci sarebbe più un’Omora, verrebbe ridotta in cenere.»

Tadewi annuì.

Dopo un po’ disse «Qual è il piano?»

L’uomo sospirò «È molto semplice. Trasporterò il tuo spirito in questo corpo. Dopodiché fuggiremo. Ebo e i suoi uomini non si aspetteranno di trovarti in un altro corpo. Soprattutto nel corpo di un uomo.»

«In pratica mi darai un nuovo ricettacolo?» chiese curiosamente la primordiale del vento. L’uomo dondolò col capo «Non proprio. Ricorda che siamo riusciti a ottenere i ricettacoli grazie alle magie di Nehor. Stavolta non userò il suo potere, altrimenti potrebbe risvegliarsi. Officerò una magia di mia invenzione che consente di unire lo spirito di due corpi differenti in un unico corpo. L’ho chiamata... identità...»

«Identità?» domandò lei curiosa «Ma mi unirò al tuo corpo, zio?»

L’uomo scosse la testa «Quest’uomo era del villaggio di Ramsar, non si è ancora decomposto e non è stato martoriato quanto gli altri. Essendo morto ormai non ha più un’anima, quindi in pratica per te sarebbe solo un passaggio da un corpo a un altro, il tuo spirito non convergerà con quello di nessun altro» ridacchio «In effetti hai ragione, è proprio come se ottenessi un nuovo ricettacolo.»

La donna sembrava poco convinta «Ma... quale sarebbe la reazione da pagare?»

L’uomo sospirò «Perderai parte di te stessa... e anch’io...»

Tadewi si morse il labbro. Lui si affrettò ad aggiungere «Non preoccuparti, non è la prima volta che la uso...»

Lei annuì «Va bene... ma il medaglione a che serve?»

«Un piano di emergenza, nel caso le cose dovessero andare male...» rispose lievemente avvilito.

Lei annuì.

Rimasero in silenzio per alcuni lunghissimi secondi.

«Cosa devo fare?» si sforzò di dire a malincuore.

«È molto semplice, poggia le tue mani sul cadavere.»

Lei gli prese le spalle e lo strinse forte.

Poco dopo l’uomo le prese i polsi.

«Sei pronta?»

Lei scosse la testa «No.»

Lui sorrise «Non preoccuparti ti proteggerò io. Non permetterò che ti accada nulla di male.»

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