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Capitolo 20

Il frammento perduto

Era tutto stato messo a soqquadro.

Non vi era oggetto che fosse rimasto al suo posto, non vi era parte di edificio che fosse rimasta intatta, non vi era niente che non fosse stato colpito dalla devastazione.

Un silenzio di tomba predominava in tutta l'area e non si sarebbe sorpresa se effettivamente sarebbe spuntato da un momento all'altro un cadavere. Il suono dei suoi passi era silenzioso, poggiava i suoi piedi scalzi sulla nuda pietra, che tuttavia era calda al tatto. Dalla superficie infatti si levavano delle strisce di fumo ondulate, inodori e incolori, come se della pece grigia fosse stata gettata sul pavimento e fosse al tempo stesso bollente e fredda. Dal tetto penetrava la luce tramite buchi grossi e le tegole che avrebbero dovuto essere lì a frapporsi all'illuminazione e alle intemperie, erano invece per terra, ammucchiate alla rinfusa e spezzate in più punti, per non dire del tutto frantumate. Seppure non ci fosse neanche una nuvola in cielo, la luce che penetrava dall'alto era cupa, distorta, persino più tetra dello stato di desolazione che permeava in basso. Colonne rotte e cadenti, pareti fatiscenti e scale dissestate erano solo una minima parte di quello che riusciva a vedere.

Ma cosa diamine è successo qui?

Si mise per istinto una mano alla vita, alla ricerca della sua daga, ma solo allora si rese conto non era armata e non vi era niente da poter utilizzare per difendersi. Fece alcuni passi in avanti, osservando guardinga l'intera sala. Sembrava che non ci fosse nessuno. Eppure non si sentiva al sicuro. Abbassò lo sguardo, dei brandelli di stoffa rossa erano sparsi per terra.

Vide parte di un buco in alto sulla parete alla sua destra, da cui entrava una strana aura di luce, a cui non aveva la minima intenzione di avvicinarsi, le colonne erano state spezzate e chissà per quale miracolo il soffitto non era crollato del tutto, vi erano scalfitture sulle pietre, o meglio di quello che rimaneva del pavimento e delle pareti, macchie di sangue e bruciature erano ovunque, quasi come delle macabre decorazioni di una sala spettrale. Non c'erano vessilli, ma solo ruderi e macerie ovunque posasse lo sguardo.

Ma che posto è questo?

Si avvicinò lentamente verso il centro della sala. Era uno dei saloni più grandi che avesse mai visto in vita sua. E anche uno di quelli che si presentava in maniera più disastrata.

Udì un roboante boato alle sue spalle. Sussultò per lo spavento e si voltò. Parte della parete era crollata, rivelando un altro sbocco verso l'esterno. Si mise nuovamente la mano in vita, alla ricerca di protezione, ma non ve ne era alcuna. Con diffidenza e cautela, si diresse proprio verso la direzione di provenienza del rumore. Davanti ai suoi occhi si presentava una scalinata distrutta di circa una decina di gradini, dall'inclinazione lieve, sulla cui cima vi erano ruderi di colonne, pezzi di mura e soffitto che formavano una barriera di macerie che ostruiva il passaggio e la visione. Tra essi vi erano anche delle assi di legno massello scuro cilindriche e rettangolari, lunghe poco meno di un metro e altri pezzi di legno spezzati in più punti.

Provò a parlare.

C'è nessuno?

Ma la voce non le uscì.

Decise di proseguire sul suo tragitto, ma più si guardava attorno, più il paesaggio era desolante. Cominciò a salire i gradini rotti a uno a uno. Sentiva un certo senso di familiarità con quelle scale. Eppure non sapeva minimamente dove si trovasse. Dopo aver fatto pochi passi, sentì parte dei gradini rompersi sotto il suo passo. Dovette fare attenzione affinché le pietruzze non le graffiassero le piante dei piedi nudi. Salì fino alla cima e si voltò. Nonostante non fosse una scalinata molto alta, era possibile vedere il resto dell'intera sala da quella posizione.

Era uno sfacelo totale.

«C'è nessuno?»

Stavolta la voce le uscì e rimbombò per la rovinosa stanza, rompendo un silenzio inascoltato. Polvere e ciottoli caddero dal soffitto. Scosse la testa.

Devo andarmene da qui, non è un buon segno...

Giunse nel bel mezzo dello spiazzo, dove vi erano macerie frantumate e ruderi lasciati all'abbandono, alle cui spalle vi era la luce proveniente da un'apertura sulla parete, la cui visione tuttavia era ostruita. Si avvicinò a un cumulo e cominciò a spostare alcune pietre più leggere, gettandole via e facendole rotolare sulla scalinata. Continuò a scavare e tirò giù una pietra particolarmente pesante, facendo cadere un grosso cumulo ai suoi piedi. Si ritirò e mise una mano davanti per proteggersi dalla sporcizia che le cadeva addosso. Ma quel crollo fu fortunoso, aprì un varco dove poté infilarsi. Diede un'occhiata e valutò che poteva scavalcarlo facilmente da quell'altezza. Si diede quindi lo slancio con entrambe le braccia per salire e infilarsi nella piccola breccia, dovette sforzarsi non poco per stringersi e passare attraverso quello stretto cunicolo. Si mise carponi per agevolarsi, le spalle strisciarono contro la pietra e seppure non graffiavano, lo strusciarsi su di esse non era una sensazione piacevole. Le mani dalle dita esili si sporcarono e vi era polvere persino sulle sue spalle e le stava cadendo addirittura sui capelli. Il pertugio si faceva sempre più stretto ed era sempre più difficile andare avanti, ma tornare indietro sarebbe stato inutile. Giunta al limitare del buco, rimase incastrata tra le pareti dell'uscita. Con grande difficoltà strusciò per alzarsi in piedi, batté la testa su una parte di colonna che sporgeva. Ahia... Si massaggiò il capo e trascinò prima il fianco destro e poi quello sinistro fuori, poggiando in malo modo il piede all'esterno, dove anche lì il pavimento di pietra era fatiscente, in parte rotto e da cui si vedeva lo strato di calce sottostante.

Tuttavia non era quello che catturò la sua attenzione.

Notò che la rottura della parete che era riuscita a intravedere dall'altra parte era una vera e propria voragine che dava all'esterno. Soffiava un vento da quella direzione, così forte che avrebbe respinto un esercito intero.

In un certo senso, le sembrava familiare.

Tentò di avvicinarsi lentamente, coprendosi il viso con il braccio destro. Provò un forte senso di smarrimento alla sola vista del luogo in cui si affacciava. Era a decine e decine di metri sospesa nel vuoto, avrebbe potuto essere ad altezza del volo di un rapace, al di sotto di quello spaventevole precipizio, si distendevano piane infinite, ammantate di neve, il cui candore era trafitto da stalagmiti di ghiaccio, come migliaia di pugnalate raggelate dal gelo, il cui numero incalcolabile ricopriva un'area ancora più vasta dell'intera pianura. Il luogo dove si trovava era sospeso nel vuoto, su una roccia che fluttuava nell'aria, grazie alla potenza vorticosa dei venti e proprio sotto la roccia vi era un'ammasso di ruderi e catapecchie, come una città fantasma circondata da un cimitero di cristallo. Ma la cosa più impressionante era il cielo in cui stava sorvolando. Era viola come i lampi che lo squarciavano in tempesta, non vi erano nuvole, ma l'atmosfera stessa era così opprimente che la terra era oscurata. Il sole rosso era l'unica cosa che a malapena penetrava quella barriera violacea obbrobriosa. Non vi era suono di una voce, non vi era lo stridere di alcun rapace che osasse solcare quei cieli violacei, non vi era respiro che potesse strozzarsi alla visione di tale orrore.

Era un mondo vuoto e muto.

Fece alcuni passi indietro, inorridita.

Sono in trappola!

«Sì, è esatto.»

A parlare era stata una voce maschile alle sue spalle. Si voltò di scatto e vide un uomo in tunica bianca, il cui volto era nascosto da un cappuccio, lasciando intravedere solo la parte inferiore della mascella, su cui spuntava una barba incolta e lunga e un sorriso triste dalle sue labbra sottili. Era seduto a gambe incrociate per terra, con delle lunghe fasce sui polsi e sulle mani e la tunica che copriva il resto del suo corpo atletico, di altezza media.

Lo guardò stranita, osservandolo di sbieco «Noi... ci siamo già visti...»

L'uomo annuì «Sì, mia cara. Questo non è il nostro primo incontro.»

«Chi sei?» chiese con calma «Qual è il tuo nome?»

Lui sorrise «Per i dieci, non demordi mai, eh?» ridacchiò e scosse la testa «Io sono una parte di te e tu sei una parte di me.»

«Ah! Finalmente ora sì che è tutto ha un senso! Ora sì che è tutto più chiaro! Cioè... era proprio il tassello mancante di tutta questa caotica situazione!» esclamò incrociando le braccia e alzando un sopracciglio.

L'uomo rise «Ah ah ah! Scusa... ma non posso ancora rivelartelo...» poi batté una mano, sul pavimento di fianco a lui per invitarla a sedersi.

Lei si avvicinò e si sedette al punto indicatole, con le gambe in avanti lievemente piegate e le mani poggiate sulle ginocchia. «Dove siamo?»

«Non la riconosci? Eppure dovrebbe esserti familiare. In ogni caso siamo a Novgrad e quel trionfo di ghiaccio che è quaggiù è la piana di Noveren.»

La donna sgranò gli occhi «Questa è Novgrad? Cioè... mi vuoi dire che qui siamo...?»

L'uomo scosse la testa «Non è ancora il momento, ma sì.»

Rimasero in silenzio per diversi secondi, non sapendo cosa dire.

«Ma... se siamo a Novgrad... cioè... perché siamo in trappola? Cioè... non possiamo uscire?» domandò con un lieve tono di agitazione.

Lui fece una smorfia tendendo le labbra «In effetti un modo ci sarebbe... ma non è consigliabile...» rispose indicando lo strapiombo poco davanti a loro «E comunque che tu trovi o meno una via d'uscita, ormai è fatta. Quindi che tu abbia successo o fallimento, il risultato non cambierà... Per questo sei in trappola» le spiegò laconico.

«Quindi devo rimanere qui a far niente?» protestò animatamente.

L'uomo fece spallucce «Non devi per forza rimanere immobile. Però... non credo che cambierà qualcosa...»

Lei grugnì per la frustrazione «Sì, ma... chi è stato a metterci in questa situazione? Cioè... perché tenerci qui? È stato Gareth? È stato l'imperatore?» chiese lei con ansia.

L'uomo misterioso fece una smorfia «Sì... ma non è stato il solo. È stata colpa anche del tuo amato...»

Lei sgranò gli occhi furiosa «Che c'entra Zephyr in tutto questo? Che significa?»

Lui la scrutò sorpreso «È curioso che hai subito a pensato a Zephyr quando ho parlato di amato...» poi fece spallucce «Ma sì, è anche colpa sua se sei in questa situazione...» si mise una mano sotto al mento «In effetti a pensarci bene... lui ha avuto la responsabilità più grande in tutto questo...»

«In che senso? Spiegati meglio!» sbraitò, poi abbassò il tono nel totale imbarazzo «E dimmi cosa c'entra Rytren in tutto questo...»

L'uomo distese la fronte con aria consapevole «Beh... Lui, come te, sta contribuendo a tutto questo, quindi in un certo senso condividete lo stesso grado di colpa...» poi sospirò avvilito «Ma credo che i due maggiori responsabili siamo io e lei...»

«Tu e... lei?» domandò sempre più confusa.

«La Dormiente, Naar.» rispose lui come se fosse la risposta più naturale del mondo.

Mina si mise le mani davanti agli occhi, coprendo anche il naso e la bocca, fece un respiro profondo «Va bene, non ci sto capendo niente. Cioè mi stai dicendo che noi... tutti noi stiamo creando questo?»

L'uomo annuì «Sì.»

Mina fece alcuni secondi di pausa cercando di mantenere la calma «Come?»

Ci pensò un po', rimuginando su cosa dire «Agendo. Insomma facendo ciò che state facendo...»

Mina si passò la lingua sui denti di sotto «Quindi... per evitare ciò, non dobbiamo agire? Cioè... non dobbiamo fare niente?»

L'uomo ci pensò, poi scosse la testa con poca convinzione «No, accadrà lo stesso... Te l'ho detto, ormai sei in trappola.»

Mina mise le mani giunte e le mise davanti alle labbra, sospirò profondamente «Ascolta, non ci sto capendo niente. Potresti parlare più chiaro?»

L'uomo sospirò e si alzò in piedi «Vieni... ti darò le risposte che vuoi...» si avvicinò a passi lunghi e lenti alla voragine sulla parete. Si appoggiò al bordo sinistro. Mina lo seguì e gli si affiancò.

«Raggiungi questo luogo.»

Indicò in basso.

Mina cercò di sporsi il più possibile per cercare di capire il punto che le stava indicando.

D'improvviso sentì una mano sulla sua schiena e che con forza la spinse fuori.

Lei non ebbe nemmeno il tempo di pensare.

Improvvisamente sentì l'aria sulla faccia, sul corpo. Non aveva più il controllo delle sue facoltà motorie, sentiva solo un portentoso vento sferzarle il viso. Non emise nemmeno un urlo, paralizzata dal terrore com'era. La bocca non le si apriva, sentiva le guance ritirarsi all'indietro, gli occhi chiudersi per la forza del vento. La spinta della caduta la costringeva ad allargare le braccia e divaricare le gambe. Sembravano pesanti come macigni e si piegavano all'indietro indipendentemente dalla sua volontà. Quanto più la quota diminuiva, la velocità della caduta aumentava.

Quando era a circa metà strada, riuscì per miracolo ad aprire gli occhi. A poco a poco cominciò a distinguere sempre più dettagli della città sottostante. I palazzi, i negozi, persino i passaggi segreti. Ormai erano dei ruderi fumanti.

Nella caduta inesorabile, vide un gigantesco giardino sotto di sé. Le piante un tempo vistose, vivide e colme di colori, apparivano ora nere color della cenere, bruciate da chissà quali fiamme, o avvelenate da chissà quale oscura malia. La terra nera intorno a quel funereo spettacolo di flora morta, era scavata in maniera precisa e regolare. Seppure avesse la visibilità limitata, riconobbe immediatamente il simbolo che essa andava a formare. Era il simbolo dell'elemento del ghiaccio. Al centro vi era una strana costruzione di ferro battuto e ghisa, con tegole disposte a formare un ottagono.

Si rese spaventosamente conto che a breve sarebbe stato quello il punto d'impatto.

Provò a urlare, ma la voce non le usciva. D'improvviso la costruzione prese fuoco creando una spirale di fiamme che a breve avrebbe ridotto anche lei in cenere.

D'improvviso sentì una voce cavernosa «Corah... i dieci elementi... i quattro cavalieri...»

Non ebbe nemmeno il tempo di pensare a quello che stava sentendo, tra la velocità della caduta che le impediva di muoversi e il calore delle fiamme che si avvicinava. Precipitò sempre più velocemente e sentiva ormai il fuoco che si avviluppava al suo corpo.

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